domenica 10 maggio 2009

Le cose dell’amore che non sono amore



Le cose dell’amore che non sono amore
di Antonio Bruno


A San Cesario di Lecce sabato 9 maggio Umberto Galimberti ha parlato del suo libro del 2004 Le cose dell’amore.
C’era moltissima gente a riempire letteralmente l’atrio del Palazzo Ducale. Ho ascoltato quello che segue.
L’uomo teme ciò che fa perdere l’ordine e Dioniso collassa l’ordine. L’umano è collegato con la ragione e l’antecedente della ragione è la follia. Lo scenario della follia è abitato da Dio.
L’uomo abita invece lo scenario della ragione.
Quando tu dici “Io faccio cose dell’amore” stai mentendo, perché io non dispone delle cose dell’amore.
Socrate soffriva di attacchi di ATOPIA che viene da Topos che significa luogo. Atopia significa “fuori dal luogo” ovvero dislocazione.
Se vuoi entrare nelle cose dell’amore devi essere nell’atopia.
Ragione e poi sotto di lei la follia e noi siamo diversi per la specifica follia. Nel linguaggio delle cose dell’amore non c’è singolare o plurale ma duale. Con l’atopia entri nelle cose dell’amore.
E “Io non può entrare nelle cose dell’amore” perché “Io” è posseduto delle cose dell’amore. Come la parola entusiasmo che significa dentro di me ho un Dio, e il poeta ha entusiasta dice cose ispirate da Dio e infatti ci si esprime contaminati da adiacenze di significati..
Il Dio è violenza perché non sta nelle regole e nelle cose dell’amore c’è il raptus che significa rapito da cosa altra. Le cose dell’amore sono agitazione sia quando ci avviciniamo con tenerezza che quando ci allontaniamo con sguardo feroce.
La filosofia sa di non sapere. Il filosofo sa di non sapere nulla e che la verità è in ogni uomo. Il filosofo ha EPISTEME (ciò che sta su da solo) ovvero il sapere. Sta su da solo e non si appoggia in base agli effetti o in nome dell’autorità o per la fascinazione.
Acta Erotica le cose dell’amore vengono insegnate da una donna.
La follia è antecedente alla razionalità ed è sede delle cose dell’amore e c’è Afrodite che con Ares (Marte) genera il Dio delle cose dell’amore che sono pulsione sessuale e aggressiva che non appartengono all’io. Platone afferma che le cose dell’amore vivono di mancanza, di povertà (Penia = Povertà , miseria) e tale mancanza genera il desiderio (Epizimia) ovvero aprire un varco tra le stelle.
Nel De Bello Gallico appaiono i desiderantes che passano la notte ad attendere chi non è ritornato. Il desiderio è mancanza e la via d’uscita è rappresentata dalle cose dell’amore e continuiamo a occuparci delle cose dell’amore finchè l’altro ci rimane nascosto, quando dell’altro sappiamo ecco che le cose dell’amore finiscono.
L’altro se vogliamo che sia delle cose dell’amore deve esserci nascosto ed enigmaticamente buio. Tra chi accadono le cose dell’amore?
Tra IO e TU. Io attraverso te scendo nella mia follia così come tu attraversoi me scendi nella tua follia. Condizione sopsistica (Il solipsismo (dal latino solus solo e ipse stesso, ossia "solo se stesso" è la credenza metafisica che l'esistenza in quanto tale sia solo parte degli stati mentali dell'individuo stesso, in altri termini: tutto ciò che esiste è creato dalla o è parte della mia conoscenza).
Nelle cose dell’amore quando l’altro ci lascia diciamo che ci ha portato via l’anima perché se lei non c’è io non posso scendere nella mia follia. Le cose dell’amore è ermeneutiche che significa interpretano traducono il linguaggio degli uomini agli dei.
Le cose dell’amore sonoquelle che mettono in comunicazione l’IO ovvero la ragione con l’inconscio ovvero gli dei il risultato è che le cose dell’amore non generano ma aiutano a generare. Dopo aver avuto accesso alle cose dell’amore l’io non è più quello di prima. Nelle cose dell’amore c’è maieusis, aiuta la generazione dell’io e dopo una storia l’io ha delle tracce che possono essere ornamenti o ferite.
Poi la circostanza che Platone affermava che ognuno di noi è la metà di quello che era in origine, ovvero ognuno di noi è il simbolo di un uomo. Solo che simbolo significa mettere assieme non è invece il segno che praticamente rappresenta qualcosa come Una torre (segno fallico) o una caverna (segno femminile).
C’è qualcosa che manca per fare senso che possiede l’altra metà.
Ciò che ho ascoltato è riferito alle cose dell’amore e tutto quanto detto è quello che l’amore non è, e mi ha arricchito nella conoscenza della cultura Greca e della descrizione della passioni umane consce e inconsce. Nulla a che vedere con Paolo di Tarso e con il suo Inno all’amore dove invece ho trovato una descrizione molto vicina alla mia esperienza e sempre nulla a che vedere agli effetti dell’amore descritti nel Vangelo dalle Beatitudini.

Umberto Galimberti

Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. E’ allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio.
PLATONE, Simposio, 192 c-d

Perché un libro sull'amore? Perché, rispetto alle epoche che ci hanno preceduto, nell'età della tecnica l'amore ha cambiato radicalmente forma. Da un lato è diventato l'unico spazio in cui l'individuo può esprimere davvero se stesso, al di fuori dei ruoli che è costretto ad assumere in una società tecnicamente organizzata, dall'altro lato questo spazio, essendo l'unico in cui l'io può dispiegare se stesso e giocarsi la sua libertà fuori da qualsiasi regola e ordinamento precostituito, è diventato il luogo della radicalizzazione dell'individualismo, dove uomini e donne cercano nel tu il proprio io, e nella relazione non tanto il rapporto con l'altro, quanto la possibilità di realizzare il proprio sé profondo, che non trova più espressione in una società tecnicamente organizzata, che declina l'identità di ciascuno di noi nella sua idoneità e funzionalità al sistema di appartenenza.

Per effetto di questa strana combinazione, nella nostra epoca l'amore diventa indispensabile per la propria realizzazione come mai lo era stato prima, e al tempo stesso impossibile perché, nella relazione d'amore, ciò che si cerca non è l'altro, ma, attraverso l'altro, la realizzazione di sé.

Nelle società tradizionali, da cui la tecnica ci ha emancipato, vi era poco spazio per le scelte del singolo e la ricerca della propria identità(...).

Oggi l'unione di due persone non è più condizionata dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, o dal mantenimento e dall'ampliamento della propria condizione di privilegio sociale e di prestigio, ma è il frutto di una scelta individuale che avviene in nome dell'amore, sulla quale le condizioni economiche, le condizioni di classe o di ceto, la famiglia, lo Stato, il diritto, la Chiesa non hanno più influenza e non esercitano più alcun potere, sia in ordine al matrimonio dove due persone in completa autonomia si scelgono, sia in ordine alla separazione e al divorzio dove, in altrettanta autonomia, i due si congedano.


L'amore perde così tutti i suoi legami sociali e diventa un assoluto (solutus ab, sciolto da tutto), in cui ciascuno può liberare quel profondo se stesso che non può esprimere nei ruoli che occupa nell'ambito sociale (...).

L'amore diventa a questo punto la misura del senso della vita, e non ha altro fondamento che in se stesso, cioè negli individui che lo vivono, i quali, nell'amore, rifiutano il calcolo, l'interesse, il raggiungimento di uno scopo, persino la responsabilità che l'agire sociale richiede, per reperire quella spontaneità, sincerità, autenticità, intimità che nella società non è più possibile esprimere (...).

È come se l'amore reclamasse, contro la realtà regolata dalla razionalità tecnica, una propria realtà che consenta a ciascuno, attraverso la relazione con l'altro, di realizzare se stesso. E in primo piano, naturalmente, non c'è l'altro, ma se stesso. E questo di necessità, quindi al di fuori di ogni buona o cattiva volontà, perché a chi sente di vivere in una società che non gli concede alcun contatto autentico con il proprio sé, come si può negare di cercare nell'amore quel sé di cui ha bisogno per vivere e che altrove non reperisce?

Ma così l'amore si avvolge nel suo enigma: il desiderare, lo sperare, l'intravedere una possibilità di realizzazione per se stessi cozzano con la natura dell'amore che è essenzialmente relazione all'altro, dove i due smettono di impersonare ruoli, di compiere azioni orientate a uno scopo e, nella ricerca della propria autenticità, diventano qualcosa di diverso rispetto a ciò che erano prima della relazione, svelano l'uno all'altro diverse realtà, si creano vicendevolmente ex novo, cercando nel tu il proprio se stesso.

Se tutto ciò è vero, nell'età della tecnica, dove sembrano frantumati tutti i legami sociali, l'amore, più che una relazione all'altro, appare come un culto esasperato della soggettività, in perfetta coerenza con l'esasperato individualismo cui non cessa di educarci la nostra cultura, per la quale l'altro è solo un mezzo per l'accrescimento di sé (...).

L'amore non è ricerca della propria segreta soggettività, che non si riesce a reperire nel vivere sociale. Amore è piuttosto l'espropriazione della soggettività, è l'essere trascinato del soggetto oltre la sua identità, è il suo concedersi a questo trascinamento, perché solo l'altro può liberarci dal peso di una soggettività che non sa che fare di se stessa.

Che cos'è quel desiderarsi degli amanti, quel loro cercarsi e toccarsi se non un tentativo di violare i loro esseri nella speranza di accedere a quel vertice morale che è la comunicazione vera, al di là di quella finta comunicazione a cui ci obbliga la nostra cultura della funzionalità e dell'efficienza?

Per essere davvero il controaltare della tecnica e della ragione strumentale che la governa, amore non può essere la ricerca di sé che passa attraverso la strumentalizzazione dell'altro, ma deve essere un'incondizionata consegna di sé all'alterità che incrina la nostra identità, non per evadere dalla nostra solitudine, né per fondersi con l'identità dell'altro, ma per aprirla a ciò che noi non siamo, al nulla di noi (...).

Per questo diciamo che amore non è una cosa tranquilla, non è delicatezza, confidenza, conforto. Amore non è comprensione, condivisione, gentilezza, rispetto, passione che tocca l'anima o che contamina i corpi. Amore non è silenzio, domanda, risposta, suggello di fede eterna, lacerazione di intenzioni un tempo congiunte, tradimento di promesse mancate, naufragio di sogni svegliati. Amore è violazione dell'integrità degli individui, è toccare con mano i limiti dell'uomo.

La cosa più difficile da trovare nei legami amorosi, è l'amore...


Tutta la religione della spontaneità, della libertà, della creatività, della sessualità gronda del peso del produttivismo; anche le funzioni vitali si presentano immediatamente come funzioni del sistema economico. La stessa nudità del corpo, che pretende di essere emancipata e progressista, lungi dal trovare la naturalezza al di là degli abiti, dei tabù, della moda, passa accanto al corpo come equivalente universale dello spettacolo delle merci, per scrivere i suoi segni univoci, che si evidenziano nel linguaggio dei bisogni indotti e dei desideri manipolati.Riferimento: La frase riportata è estrapolata dal cap IX "Amore e seduzione. La trasparenza delle vesti e l'inganno del desiderio" pag. 83.
È una frase che racchiude l'essenza della società consumistica in cui viviamo, dove la seduzione è utilizzata come mercificazione di una sovrastruttura l'immagine che può essere da tutti fruita e consumata e che sostituisce l'oggetto del desiderio. Tale oggetto, anche se posseduto, non ha valore perché la sessualità rende il corpo inespressivo, poiché la vera seduzione, come dice lo stesso autore, "... è possibile solo quando il corpo mantiene tutta la sua polivalenza di senso, e non si riduce a quel significato univoco che è il sesso, così come nella nostra cultura è stato codificato."
Il libro "Le cose dell'amore" inizia con una dedica "A Tatjana per ragioni che mi sono in parte note e in parte ignote" spiegata successivamente da un passo tratto dal "Simposio" di Platone che riporto in parte "Gli amanti che passano la vita insieme non sanno cosa vogliono l'uno dall'altro (...) l'anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire (...) come divinando da un fondo enigmatico e buio."
L'essenza dell'Amore Platonico - spesso interpretato arbitrariamente come un semplice idillio di due anime - viene ri-qualificato in molte opere di Umberto Eco e in questo libro, molto semplice e scorrevole, è evidenziato il suo totale annullamento nel mondo odierno, poiché la seduzione elude il desiderio e non consente di coglierne la trascendenza sottesa.


“…. L’amore non è possesso, perché il possesso non tende al bene dell’altro, ma solo al mantenimento della relazione che , lungi dal garantire la felicità, che è sempre nella ricerca e nella coscienza di sé, la sacrifica in cambio della sicurezza. Siamo in due, non sappiamo più chi siamo, ma siamo insieme ad affrontare i mondo.”

Le cose dell'amore -
A differenza dell’animale l’uomo sa di dover morire. Questa consapevolezza lo obbliga al pensiero dell’ulteriorità che resta tale comunque la si pensi abitata: da Dio o dal nulla. Ciò fa del futuro l’incognita dell’uomo e la traccia nascosta della sua angoscia segreta. Non ci si angoscia per “questo” o per “quello”, ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all’ingresso e all’uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere. Un esistere per nulla o per Dio?
Ma qui siamo già nel repertorio delle risposte, delle argomentazioni, delle conversioni, delle disperazioni. Io vorrei trovare l’essenza dell’amore che, come vuole Norman Brown, “è toglimento di morte (a-mors)”, prima di queste domande e risposte, vorrei trovarla là dove l’uomo tende il suo urlo, anche sommesso, al di là dell’esistenza e chiede ascolto. Chiama questo ascolto Dio: ignoto Tu, che supplisce all’indifferenza della terra e delle macchinazioni che si compiono sulla terra.
Sembra, infatti, che il dialogo tra Io e Tu sia insoddisfacente, che gli spazi di silenzio e di incomprensione, al di là della buona volontà e delle buone intenzioni, esigano una comprensione superiore.
Sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana.
Sembra che l’intensità della passione non trovi corrispondenza nell’amore e nell’ira che gli uomini possono vicendevolmente scambiarsi.
Sembra che la solitudine non possa neppure costituirsi, e tanto meno un dialogo interiore, se l’altra parte non ha un volto sovrumano.
Sembra che la metafora dell’inconscio sia troppo povera per contenere quel patire che solo nei simboli religiosi trova l’altezza della sua iconografia.
Sembra che le vette della mente non sappiano perché si protendano verso il cielo, se il cielo è vuoto. E neppure perché l’esilio, a cui ci avvicina la disperazione, possa essere immaginabile senza un inferno che ce lo prefiguri come corrispondenza immaginifica dell’anima.
Nell’atmosfera creata da queste inquiete domande, tutte le parole che quotidianamente impieghiamo nel mondo rivelano la loro afasia. E allora solo l’amore, con la vibrazione delle sue folgorazioni, può favorire quel cedimento della mente che è necessario, perché la roccaforte della ragione, a differenza del cuore, è incapace di sfiorare la verità senza possederla. Infatti, come scrive il teologo greco-ortodosso Christos Yannaras:

Se ti sei innamorato una volta, sai ormai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza. Sai che la sopravvivenza significa vita senza senso e sensibilità, una morte strisciante: mangi il pane e non ti tieni in piedi, bevi acqua e non ti disseti, tocchi le cose e non le senti al tatto, annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. Se però l’amato è accanto a te, tutto, improvvisamente, risorge, e la vita ti inonda con tale forza che ritieni il vaso di argilla della tua esistenza incapace a sostenerla. Tale piena della vita è l’eros. Non parlo di sentimentalismi e di slanci mistici, ma della vita, che solo allora diventa reale e tangibile, come se fossero cadute squame dai tuoi occhi e tutto, attorno a te, si manifestasse per la prima volta, ogni suono venisse udito per la prima volta, e il tatto fremesse di gioia alla prima percezione delle cose. Tale eros non è privilegio né dei virtuosi né dei saggi, è offerto a tutti, con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro di Lui.


© Feltrinelli

In breve

L’eros declinato in tutte le sue “figure”. L’attrazione, il corteggiamento, la seduzione, il tradimento, la separazione, la solitudine, l’onanismo. Gli “enigmi dell’amore” rivisitati, alla luce del tempo che chiamiamo nostro, da un grande filosofo morale.


Il libro
“Quando dico ‘ti amo’ che cosa sto dicendo di preciso? E soprattutto chi parla? Il mio desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso, la mia follia? E come si trasforma questa parola quando il desiderio si satura, l’idealizzazione delude, la dipendenza si emancipa, l’eccesso si riduce, la follia si estingue? Non c’è parola più equivoca di ‘amore’ e più intrecciata a tutte quelle altre parole che, per la logica, sono la sua negazione. Tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto esperienza che l’amore si nutre di novità, mistero e pericolo e ha come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità. Nasce dall’idealizzazione della persona amata di cui ci innamoriamo per un incantesimo della fantasia, ma poi il tempo, che gioca a favore della realtà, produce il disincanto e tramuta l’amore in un affetto privo di passione o nell’amarezza della disillusione. Qui Freud ci pone una domanda: ‘Quanta felicità barattiamo in cambio della sicurezza?’.” Umberto Galimberti ci consegna un volume (che in parte raccoglie suoi articoli pubblicati dal quotidiano “la Repubblica”) in cui l’acutezza del pensiero penetra i meandri del sentimento e del desiderio e il lettore morale registra i mutamenti intervenuti nella modalità di vivere (e patire) le dinamiche dell’attrazione, il patto con l’amato/a, la trama di autenticità e menzogna del rapporto amoroso, i percorsi del piacere (dall’onanismo alla perversione). Sullo sfondo si muove, come un fantasma, continuamente evocato e rimosso, quello che propriamente o impropriamente gli uomini non smettono di chiamare amore.

Dal primo capitolo
A differenza dell’animale l’uomo sa di dover morire. Questa consapevolezza lo obbliga al pensiero dell’ulteriorità che resta tale comunque la si pensi abitata: da Dio o dal nulla. Ciò fa del futuro l’incognita dell’uomo e la traccia nascosta della sua angoscia segreta. Non ci si angoscia per "questo" o per "quello", ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all’ingresso e all’uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere. Un esistere per nulla o per Dio?
Ma qui siamo già nel repertorio delle risposte, delle argomentazioni, delle conversioni, delle disperazioni. Io vorrei trovare l’essenza dell’amore che, come vuole Norman Brown, "è toglimento di morte (a-mors)", prima di queste domande e risposte, vorrei trovarla là dove l’uomo tende il suo urlo, anche sommesso, al di là dell’esistenza e chiede ascolto. Chiama questo ascolto Dio: ignoto Tu, che supplisce all’indifferenza della terra e delle macchinazioni che si compiono sulla terra.
Sembra, infatti, che il dialogo tra Io e Tu sia insoddisfacente, che gli spazi di silenzio e di incomprensione, al di là della buona volontà e delle buone intenzioni, esigano una comprensione superiore.
Sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana.
Sembra che l’intensità della passione non trovi corrispondenza nell’amore e nell’ira che gli uomini possono vicendevolmente scambiarsi.
Sembra che la solitudine non possa neppure costituirsi, e tanto meno un dialogo interiore, se l’altra parte non ha un volto sovrumano.
Sembra che la metafora dell’inconscio sia troppo povera per contenere quel patire che solo nei simboli religiosi trova l’altezza della sua iconografia.
Sembra che le vette della mente non sappiano perché si protendano verso il cielo, se il cielo è vuoto. E neppure perché l’esilio, a cui ci avvicina la disperazione, possa essere immaginabile senza un inferno che ce lo prefiguri come corrispondenza immaginifica dell’anima.
Nell’atmosfera creata da queste inquiete domande, tutte le parole che quotidianamente impieghiamo nel mondo rivelano la loro afasia. E allora solo l’amore, con la vibrazione delle sue folgorazioni, può favorire quel cedimento della mente che è necessario, perché la roccaforte della ragione, a differenza del cuore, è incapace di sfiorare la verità senza possederla. Infatti, come scrive il filosofo greco-ortodosso Christos Yannaras:
”Se ti sei innamorato una volta, sai ormai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza. Sai che la sopravvivenza significa vita senza senso e sensibilità, una morte strisciante: mangi il pane e non ti tieni in piedi, bevi acqua e non ti disseti, tocchi le cose e non le senti al tatto, annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. Se però l’amato è accanto a te, tutto, improvvisamente, risorge, e la vita ti inonda con tale forza che ritieni il vaso di argilla della tua esistenza incapace a sostenerla. Tale piena della vita è l’eros. Non parlo di sentimentalismi e di slanci mistici, ma della vita, che solo allora diventa reale e tangibile, come se fossero cadute squame dai tuoi occhi e tutto, attorno a te, si manifestasse per la prima volta, ogni suono venisse udito per la prima volta, e il tatto fremesse di gioia alla prima percezione delle cose. Tale eros non è privilegio né dei virtuosi né dei saggi, è offerto a tutti, con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi al tuo Dio e perché corri dietro di Lui”.
(Umberto Galimberti, “Le cose dell’amore”, Feltrinelli Editore)

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